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La mia Procida Racconta – #ConcretaMente

La mia Procida Racconta

Spaghetti al limone, acqua pazza e Brunori Sas

 


Di Dalila Sansone

 

Procida Racconta - 2018 - Foto: Dalila Sansone

Procida Racconta – 2018 – Foto: Dalila Sansone

Ci arrivi al centro delle cose, quelle che ti aspettano infilandosi dentro pretesti che si scoprono occasioni. Occasioni che sembrano agli antipodi di quello che cerchi, inseguite proprio per allontanarcisi da quelle stesse cose. La nostra di occasione stava lì, sorvegliata dalla presenza ingombrante del Vesuvio di là dal mare e stretta in una morsa dall’altro vulcano vicino, di là da un canale d’acqua. Vulcani, finte montagne che ribollono infondo alle viscere, del cuore della terra. L’ombra di un vulcano non è mai neutrale, figuriamoci quella di due. Eravamo approdate per lo stesso motivo con tre ragioni completamente diverse, a cercare un porto temporaneo, naufraghe di maremoti distinti, con zattere e coraggio nascosti bene in fondo agli occhi. Il pretesto era il festival (Procida Racconta), stare lì perché a leggere avevamo letto e tutto sommato quel gioco di scrittori in cerca di racconti era stata una molla giusta per distrarsi senza farsi male. Ascoltare storie lenisce sempre, lo fa soprattutto se per ascoltare ti allontani, ti circondi di cielo e di mare e nella valigia non metti il tuo armadio, solo cose distratte e smetti di indossare gli stessi vestiti.

Ascoltare storie lenisce sempre, lo fa soprattutto se per ascoltare ti allontani, ti circondi di cielo e di mare e nella valigia non metti il tuo armadio, solo cose distratte e smetti di indossare gli stessi vestiti.
Procida Racconta - 2018 - Foto: Dalila Sansone

Procida Racconta – 2018 – Foto: Dalila Sansone

Ci siamo incontrate così, dal lato opposto prima di tavoli diversi, poi dello stesso, fino all’ultima sera quando gli occhi si erano incrociati abbastanza e senza conoscersi sapevamo dove stavamo, dove stavamo andando. Quando ti riconosci infondo agli occhi di un altro i suoi lineamenti diventano nitidi, la voce definita e quell’altro smette di essere parte del fondale, ti entra dentro la vita e te ne accorgi. E’ successo così, da una sedia occupata per ascoltare racconti, a un tavolo di plastica sulla banchina del porto, con l’incerata blu e i camerieri scontrosi, in mezzo ad altri tavoli eleganti e signori distinti, in una commistione che solo gli spazi piccoli riescono a contenere. Una sbavatura: stavamo dall’altra parte la sera prima, poi l’approdo quello vero, senza imbarcazioni e quello sfilarsi naturale, quel gesto involontario di sottrazione dal resto per andare a cercarsi infondo agli occhi, dove c’eravamo intraviste. Spaghetti al limone e pesce all’acqua pazza, come a casa, certo una casa dell’isola non le nostre … io e Martina ci conoscevamo già, siamo pratiche delle nostre storie e dei loro passi, Francesca invece era due occhi vivissimi e una donna simpatica seduta di fronte la sera prima. Se hai bisogno di ridefinire la tua posizione sulla mappa c’è un solo modo possibile: inchiodarti ad una tavola e cominciare a parlare sequestrata dal mondo di avanzo, dai sapori che si sciolgono in bocca, dal vino che pulisce l’anima e allenta i freni e ascoltare, lasciando che affiori quello che ti sei sepolta dentro. Affiorano per evocazione certi tipi di sepolture, lo fanno se non sono sole prigioniere dei tuoi fantasmi, se accanto si materializzano altre incertezze, paure diverse eppure così simili.

L’occasione dicevo era l’isola, gli scrittori con il loro gioco, le storie degli altri per dimenticare la tua e sentire ancora di appartenere a qualcosa di più del tuo anonimo naufragio

L’occasione dicevo era l’isola, gli scrittori con il loro gioco, le storie degli altri per dimenticare la tua e sentire ancora di appartenere a qualcosa di più del tuo anonimo naufragio. Evitando le spine del pesce e passando forchettate tra i piatti hanno preso forma le storie, le nostre ai margini del festival, i cumoli di macerie e la determinazione a fermasi per guardali senza distogliere lo sguardo. Tutto sommato eravamo ancora alla deriva e ognuna aveva costruito la sua zattera come meglio aveva potuto, con quello che aveva e soprattutto non sapeva di avere. Tre donne, tre storie, diverse, noi e le vite che ci trasciniamo dietro. Tre uomini, tre punti di domanda, buchi neri che insieme a logica e comprensione hanno divorato tutto, lasciandosi alle spalle terreno arido cosparso di sale, dove sembra impossibile adesso far germogliare qualsiasi cosa sia altro.

infondo alle corde vocali che davano voce al cuore gonfio di una vita diversa, che la luce doveva tornare luce, per riuscire a mettere a fuoco le cose.

Tra l’impazienza dei camerieri, che il tempo intono alla tavola di tre naufraghe è solo un gigante impotente, schiaccia senza fare male, ecco, proprio lì tra i tavoli che si svuotavano, i gesti insofferenti di chi vuole tornare a casa e la cenere delle sigarette, i buchi neri hanno gettato la maschera. Da un lato inghiottono, deformano la luce e si avvolgono di mistero, dall’altro vomitano tutto, tornano luminosi e creano materia. Era lì che doveva interrompersi la desolazione, era in fondo agli occhi delle altre, infondo alle corde vocali che davano voce al cuore gonfio di una vita diversa, che la luce doveva tornare luce, per riuscire a mettere a fuoco le cose.

Procida Racconta - 2018 - Foto: Dalila Sansone

Procida Racconta – 2018 – Foto: Dalila Sansone

Anche il sale prima o poi si scioglie, percola nelle profondità del suolo e viene lentamente dilavato. Qualsiasi veleno che non uccida, allenta la morsa e lascia il sangue tornare vivo. Brunori era una delle tante cose raccontate: le confessioni si mescolano sempre alla vita che suona o si legge o a un aneddoto buttato lì e quindi si, si mescola pure al ricordo di un concerto di Brunori e a quel “la verità è che non vuoi cambiare quelle quattro o cinque cose in cui non credi neanche più”.

Eccolo il centro delle cose, era arrivato, il sorriso: un’espressione dimenticata sul viso, tornata dove deve stare

Il giorno dopo l’isola era inondata di luce, ci siamo ritrovate per condividere una manciata di ore insieme, qualcosa di diverso che non c’entrasse nulla con noi stesse, prima di riprendere il mare. Eccolo il centro delle cose, era arrivato, il sorriso: un’espressione dimenticata sul viso, tornata dove deve stare, il segno della consapevolezza di chi sa che il mare è infido e su una zattera si rischia spesso di annegare ma se uno ce l’ha fatta a restare a galla, se uno ha sorriso parlando del dolore che si prova a tenere nell’acqua salata ferite aperte, allora è possibile che i venti si siano placati, che la superficie dell’acqua sia tornata limpida e il sole si perda dentro un azzurro in cui si confonde il cielo col mare. Francesca non aveva dormito, aveva pensato a tante cose e ascoltato quel Brunori che non conosceva fino alla sera prima.

Il sorriso è la chiave per arrivare al centro delle cose, la chiave che ti lascia tra le mani l’aver scoperto che si può non sentirsi soli, anche se si approda su di un’isola da perfetti sconosciuti e nel bel mezzo di un naufragio.

 


 

Dalila Sansone*
Abracadalbero – Parole senza radici
Dalila-Sansone_ConcretaMente

Dalila Sansone – Foto: Alessandro Schinco

Prima di parlare rifletto, prima di scrivere no.

Le parole non hanno radici come gli alberi e non sono fatte per ancorarsi alla terra in un solo punto.
Le parole sono piuttosto semi, fatte per essere sparse dal vento e le radici ce le hanno dentro, in embrione.
Aspettano che ad accoglierle non sia terra ma animo fertile.

Sostanzialmente estranea a me stessa, ne riconosco tratti in quello che amo, di più in quello che detesto.

*Dottore forestale
Assegnista di ricerca presso il Consiglio per la ricerca e l’analisi dell’economia agraria, Centro di Ricerca Foreste e Legno

 

 

 

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