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Le orme degli uomini liberi – #ConcretaMente

Le orme degli uomini liberi

Ritrovare sapore perduto tra le lettere

 

“E’ la realtà che si infrange contro i sogni, non viceversa. La realtà è un vetro opaco pieno di ditate. I sogni sono confusi totem tutti d’un pezzo. I sogni sono forti, la realtà è debole. Ma è nella debolezza che sta la sua vittoria, nell’esser pronta a farsi in mille pezzettini senza per questo scomporre il suo potere.”

 


Di Dalila Sansone

 

Antico. E’ un libro antico quanto antica era la sensazione di continuità tra l’attrito della terra sotto la suola delle scarpe ed i contorni definiti delle cose dentro le retine degli occhi, senza interruzioni o distrazioni.

Antico come appaiono antichi i ritmi delle stagioni e l’idea che gli uomini potessero cadenzarsi dentro di esse, ritrovarsele vesti ai pensieri e fondali all’azione.

Non avresti voluta leggerla mai la nota sull’autore, ché a ogni affondo emozionale è una spina, uno scossone alla coscienza. Se non l’avessi fatto, l’avresti considerato un libro nato dagli anni di cui narra, tessuto dentro agli occhi che avevano visto o le orecchie che avevano ascoltato. Invece no.

Invece no e non basta, perché è un’opera prima e tanta maturità e presenza di scrittura è roba che lascia traccia altrove, in date anagrafiche ed editoriali completamente diverse.

E’antica la cura cucita sulla coincidenza di gesti e di ritmi, gesti che si sovrappongono mentre ritmi e ingranaggi li assorbono, una doppia esposizione di materiale fotosensibile che vincola gli uni agli altri secondo i dettami di una duplice necessità, etica e naturale.

Una vicenda accaduta, intessuta di finzione narrativa che riempie i vuoti del resoconto di materia estranea alle cronache e agli annali, un misto di passione, paure, dovere e fatalità che lascia il sapore in bocca di umanità.

E’ la primavera del 1944 a sorprendere uomini che hanno compiuto una precisa scelta di libertà in Valgrande, Piemonte ai confini con la Svizzera e a travolgere l’assunzione di responsabilità di quella scelta.

E’ la primavera del 1944 a sorprendere uomini che hanno compiuto una precisa scelta di libertà in Valgrande, Piemonte ai confini con la Svizzera e a travolgere l’assunzione di responsabilità di quella scelta. La storia di un rastrellamento, della nascita di una Repubblica libera in attesa dei movimenti decisi dallo scacchiere internazionale, di un fondale luminoso in cui si districano le stelle, s’imparano a leggere le mappe ed intuirne le leggi. Un luccichio occultato alla vista da banchi di tenebre, talora rade altre orribilmente dense.

Ancora è cura la ricostruzione storica, la descrizione dei luoghi, attenta e fedele che non cede mai alla lusinghe di una compiaciuta ostentazione o, peggio, di una facile retorica. Avvenimenti e luoghi si stagliano tra le righe, facendosi spazio tra le parole, chiamando il lettore dentro le pagine.

La narrazione è scandita da tre sospensioni, tre interruzioni alla stregua di un sogno percorso a ritroso, che spiega le ragioni, i conflitti di una genesi radicata nella coscienza, tormentata dalla contaminazione con un presente diametralmente opposto al tempo della storia e offuscato di dubbi e maschere di distrazione.

Anche lo stile narrativo cambia, si sfilaccia, insinua, provoca, quasi che la dialettica con le contraddizioni di un presente attuale sia condannata inevitabilmente a confligere con la monoliticità della scelta di parte. La partigianeria che assorbe, che piega ogni bisogno o inclinazione in scelta ripetuta, necessità morale più forte di qualsiasi istinto naturale. Questa intromissione, che può apparire non immediatamente comprensibile, ha un merito netto, inequivocabile: sottolineare la distanza da un tipo di umanità che non esiste più.

Non c’è schieramento necessario nella forma tra buoni e cattivi, gli uni si distinguono dagli altri per luce riflessa, come fossero mezzi diversi con proprietà di assorbire lo spirito critico del lettore in modo completamente opposto.

Una dimensione umana talmente viva non solo nei dettagli fisici, tanto più definiti quanto più aspro è il contrasto con l’ambiente naturale in cui si muove, ma soprattutto nella riflessione, nell’esercizio continuo di ripetere e sostenere quella precisa scelta di parte. Non c’è schieramento necessario nella forma tra buoni e cattivi, gli uni si distinguono dagli altri per luce riflessa, come fossero mezzi diversi con proprietà di assorbire lo spirito critico del lettore in modo completamente opposto.

La caratterizzazione dei personaggi è potente, giocata su contrapposizioni o sovrapposizioni forti come le personalità sui due lati e sullo stesso dello scacchiere. I due riferimenti partigiani in particolare, Muneghina e Superti, estremi di uno spettro ottico sputati fuori da un prisma, non opposti ma estremi, baluardi di un continuo di intensità che scemano l’una nell’altra. Intensità di colori più netti o confusi di personaggi minori che di minore hanno soltanto il tempo di calpestìo sulla scena e la propria scelta di rimessa dentro agli estremi dello spettro. Rifrazione contrapposta a monocromia. Complessa meraviglia delle leggi di natura antitetica ad asettici sistemi isolati.

Poi lei la natura, impassibile e bella ritratta per scorci, passaggi, ritmi che assomigliano a gesti rubati ad un’intimità ignara di essere spiata. La cura, per lei, cede il passo all’amore, quello istintivo privo di ragioni, che non si pone il problema di essere ricambiato e riesce per questo a rasentare la poesia.

Pèrule faggioUltimo aspetto degno di nota, relativo alla narrazione, è la qualità di contenuto altro, la comparsa di riflessioni aderenti al contesto, ai fatti intesi come vicenda personale di singoli, che oltre a dare compiutezza allo stile, ricordano l’enorme divario generazionale di tipo temporale che sussiste tra l’oggi e il tempo in cui si imponevano scelte di vita e di libertà di cui il presente appare appena consapevole. Erano uomini diversi, diversi per circostanze e per formazione, più presenti a sé stessi ma anche al resto.

La somma di tutti questi elementi pungola la mente, la obbliga a riflettere, a fermarsi subito dopo averla tenuta sospesa con l’arte della finzione narrativa, istiga il lettore a chiedere conto a sé stesso per contrasto o empatia.

E’ un libro dal sapore antico appunto, di coincidenze tra immagini e sentire, scevro della grandiosità dei capolavori, piuttosto della stessa bellezza delle foglie che iniziano a distendersi tra le pèrule a primavera, movimento impercettibile, silenzioso, sempre uguale a sè stesso. Un sempre finito, che nell’essere finito racchiude tutta la sua bellezza.

 

 

 

 

Le orme degli uomini liberi

Mattia Speranza | Scatole parlanti editore | Collana Voci

 


 

Dalila Sansone*
Abracadalbero – Parole senza radici
Dalila-Sansone_ConcretaMente

Dalila Sansone – Foto: Alessandro Schinco

Prima di parlare rifletto, prima di scrivere no.

Le parole non hanno radici come gli alberi e non sono fatte per ancorarsi alla terra in un solo punto.
Le parole sono piuttosto semi, fatte per essere sparse dal vento e le radici ce le hanno dentro, in embrione.
Aspettano che ad accoglierle non sia terra ma animo fertile.

Sostanzialmente estranea a me stessa, ne riconosco tratti in quello che amo, di più in quello che detesto.

*Dottore forestale
Assegnista di ricerca presso il Consiglio per la ricerca e l’analisi dell’economia agraria, Centro di Ricerca Foreste e Legno

 

 

 

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